Il nome Mosè significa “tirato fuori”. Su invito del Faraone (Genesi 45:17-25), Giacobbe e i suoi figli si trasferirono in Egitto, probabilmente circa 350 anni prima della nascita di Mosè. Qualche secolo prima, l’Egitto era stato conquistato da una razza semitica pastorale proveniente dall’Asia, gli Iksos, che soggiogarono con crudeltà gli Egiziani, una razza africana. Giacobbe e il suo seguito erano abituati alla vita pastorale e furono accolti con favore dal re, che diede loro la “parte migliore del paese,” la terra di Goscen, come loro dimora. Il re Iksos o “pastore” che dimostrò tale favore a Giuseppe e alla sua famiglia era molto probabilmente il Faraone Apopi (o Apopis). In quella posizione privilegiata, gli Israeliti “si moltiplicarono oltremodo” (Genesi 47:27), diffondendosi verso ovest e verso sud. Poi, la supremazia degli Iksos giunse alla fine. Dapprima, i discendenti di Giacobbe poterono mantenere i loro possedimenti in Goscen indisturbati. Dopo la morte di Giuseppe, però, la loro condizione non fu più altrettanto favorevole. Gli Egiziani iniziarono a disprezzarli, dando inizio al periodo della loro “afflizione” (Genesi 15:13). Gli Ebrei vennero allora crudelmente oppressi. Nonostante tutto, continuarono a moltiplicarsi, tanto che “il paese ne fu ripieno” (Esodo 1:7). Gli Egiziani iniziarono a nutrire sospetti verso di loro, che presto furono ridotti a una lotta per la sopravvivenza. Alla fine, “sorse sopra l’Egitto un nuovo re, che non aveva conosciuto Giuseppe” (Esodo 1:8).

Di fronte a questa grave situazione, questo re ritenne necessario indebolire i suoi sudditi israeliti, opprimendoli e decimandoli gradualmente. Li rese schiavi pubblici, impiegandoli per la costruzione dei suoi numerosi edifici, soprattutto delle città-deposito, dei templi e dei palazzi, e costringendoli a lavori duri e forzati. Questa crudele schiavitù amareggiò la loro vita. Gli Egiziani “imponevano loro tutti questi lavori con asprezza” (Esodo 1:13-14). Tuttavia, questa oppressione crudele non riuscì a ridurre il loro numero. Al contrario, “quanto più lo opprimevano, tanto più il popolo si moltiplicava e si estendeva” (Esodo 1:12). Il re fece allora un patto segreto con le levatrici per far uccidere tutti i maschi nati agli Ebrei. Le levatrici però non mantennero la loro parola e salvarono i bambini, tanto che “il popolo si moltiplicò” più che mai. Sconcertato, il re emise allora un decreto, comandando al popolo di uccidere tutti i figli maschi degli Ebrei, gettandoli nel fiume (Esodo 1:22). Però, nemmeno attraverso questo decreto il re riuscì ad ottenere ciò che si era prefisso. Una delle famiglie ebree in cui questo decreto portò grande preoccupazione fu quella di Amram, della famiglia dei Cheatiti (Esodo 6:16-20) il quale, insieme a sua moglie Iochebed e ai loro due figli (Miriam, una ragazzina di forse quindici anni, e Aaronne, un piccolo di tre anni), viveva a Menfi, a quel tempo capitale dell’Egitto, o nelle sue vicinanze. In questa casa tranquilla nacque un figlio maschio (571 a.C.). La madre riuscì a celare la cosa alle autorità civili nascondendolo in casa per tre mesi. Quando, però, divenne troppo difficile tenerlo nascosto, Iochebed cercò di farlo notare alla figlia del re costruendo per lui un canestro di giunchi che mise nel canneto sulla riva del fiume dove la principessa si recava solitamente per fare il bagno. Il suo piano riuscì perfettamente. La figlia del re “vide il bambino: ed ecco, il piccino piangeva.”

La principessa allora mandò Miriam, che era rimasta lì vicino, a chiamare una balia. Miriam andò a chiamare la madre del piccolo, a cui la principessa diede i seguenti ordini: “Porta con te questo bambino, allattalo e io ti darò un salario.” Il figlio di Iochebed, che la principessa chiamò “Mosè,” cioè, “salvato dalle acque” (Esodo 2:10), le fu restituito. Quando arrivò all’età dello svezzamento, il piccolo fu trasferito dall’umile dimora di suo padre al palazzo reale, dove fu allevato come figlio adottivo della principessa. Probabilmente sua madre lo accompagnò e continuò a prendersi cura di lui. Mosè crebbe tra il fasto e l’eccitazione della corte egiziana, restando però al tempo stesso in contatto con sua madre, cosa che fu fondamentale per le sue convinzioni religiose e il suo interesse nei confronti dei suoi “fratelli.” Senza dubbio, ricevette una buona istruzione e godette di tutti i vantaggi di una preparazione fisica e intellettuale. Alla fine, “fu istruito in tutta la sapienza degli Egiziani” (Atti 7:22). In Egitto c’erano allora due principali centri di erudizione, o università. Mosè probabilmente completò i suoi studi in quella di Eliopoli. Aveva allora circa vent’anni. Passarono altri vent’anni prima che egli si rivelasse una figura eminente nella storia biblica, anni trascorsi probabilmente nel servizio militare. Giuseppe Flavio narra che fu capitano in una guerra tra l’Egitto e l’Etiopia, in cui si distinse per le sue qualità di abile generale “e divenne potente in opere” (Atti 7:22). Alla fine della guerra in Etiopia, Mosè ritornò alla corte egiziana, dove fu probabilmente ricompensato con onori e ricchezze. Eppure, “sotto l’apparenza di una vita facile, divisa tra i lussi della corte e le relative asprezze della vita militare, permaneva fin dall’infanzia un segreto scontento e forse una tacita ambizione. Anche in quella situazione, Mosè non aveva mai dimenticato né desiderato dimenticare di essere ebreo.” Deciso a conoscere la condizione dei suoi compatrioti, “andò a trovare i suoi fratelli” e “notò i lavori di cui erano gravati” (Esodo 2:11). Questo giro di ispezione gli rivelò la crudele oppressione e schiavitù che pesava su di loro e ciò lo spinse a riflettere seriamente su quale fosse il suo dovere nei loro confronti. Era giunto il momento di unirsi alla loro causa, per aiutarli a spezzare il giogo della schiavitù. Prese, quindi, la sua decisione (Ebrei 11:25-27), certo che Dio avrebbe benedetto il suo impegno per il bene del suo popolo. Lasciò allora il palazzo del re per vivere, probabilmente nella casa di suo padre, come uno degli stessi Ebrei che per quarant’anni gli Egiziani avevano maltrattato crudelmente. Non poteva restare indifferente a ciò che lo circondava. Un giorno, mentre era fra il suo popolo, vide con sdegno un Egiziano che percuoteva un Ebreo. In un impeto di furia, uccise l’Egiziano e poi sotterrò il cadavere nella sabbia. Il giorno dopo, vide due Ebrei che lottavano tra di loro. Fu allora che si accorse che la notizia del suo delitto si era sparsa ovunque. Era giunta anche al Faraone (“Ramses il grande,” ossia Ramses II), che “cercò di uccidere Mosè” (Esodo 2:15). Preso dal timore, Mosè fuggì dall’Egitto e si trasferì nella terra di Madian, la parte meridionale della penisola del Sinai, probabilmente seguendo lo stesso percorso su cui, quarant’anni dopo, condusse gli Israeliti al Sinai. Fu poi provvidenzialmente condotto presso la famiglia di Reuel, dove rimase per quarant’anni (Atti 7:30). Fu là che ricevette inconsapevolmente la preparazione necessaria per la sua grande opera. Improvvisamente, l’angelo del Signore gli apparve in un pruno ardente (Esodo 3:1-2) e gli assegnò l’incarico di “far uscire dall’Egitto i figli d’Israele,” salvandoli dalla schiavitù. Dapprima restio, Mosè ubbidì poi alla visione celeste e lasciò la terra di Madian (Esodo 4:18-26). Per via, incontrò Aaronne e gli anziani d’Israele (Esodo 4:27-31). Davanti a Mosè e Aaronne c’era un compito molto duro, ma il Signore era con loro (Esodo 7:1) e il popolo riscattato uscì trionfante.

Dopo un lungo viaggio pieno di avvenimenti attraverso il deserto, gli Israeliti si accamparono nelle pianure di Moab, pronti ad attraversare il Giordano per entrare nella Terra Promessa. Là Mosè parlò agli anziani (Deuteronomio 1:1-4; 5:1-26:19; 27:11-30:20) e diede al popolo le ultime raccomandazioni, per poi intonare il gran canto (Deuteronomio 32:1) che, con parole appropriate, esprimeva la profonda emozione che provava in quel momento, ricordando la vicenda meravigliosa di cui era stato protagonista. Dopo aver benedetto le tribù (Deuteronomio 33:1) salì “sul monte Nebo, in vetta al Pisga, che è di fronte a Gerico” (Deuteronomio 34:1) e osservò i territori sottostanti. “Yahweh gli fece vedere tutto il paese: Galaad fino a Dan, tutto Neftali, il paese di Efraim e di Manasse, tutto il paese di Giuda fino al mare occidentale, la regione meridionale, il bacino del Giordano e la valle di Gerico, città delle palme, fino a Soar” (Deuteronomio 34:2-3), la stupenda eredità delle tribù di cui era stato a lungo il capo. Fu là che morì, a centovent’anni di età, secondo la Parola del Signore e fu sepolto da Dio stesso “nella valle, nel paese di Moab, di fronte a Bet-Peor” (Deuteronomio 34:6). Il popolo pianse per trenta giorni la morte di “Mosè, uomo di Dio” (Deuteronomio 33:1) (Giosuè 14:6), che si era distinto per la sua mansuetudine, pazienza e fermezza, ed era rimasto “costante, come se vedesse colui che è invisibile.” “Non c’è mai più stato in Israele un profeta simile a Mosè, con il quale il Signore abbia trattato faccia a faccia. Nessuno è stato simile a lui in tutti i segni e miracoli che Dio lo mandò a compiere nel paese d’Egitto contro il Faraone, tutti i suoi servi e tutto il suo paese; né simile a lui in tutti gli atti potenti e tremendi che Mosè fece davanti agli occhi di tutto Israele” (Deuteronomio 34:10-12). Il nome di Mosè è citato frequentemente nei Salmi e nei libri profetici come capo dei profeti. Nel Nuovo Testamento è citato come rappresentante della Legge e prototipo di Cristo (Giovanni 1:17; 2 Corinti 3:13-18; Ebrei 3:5-6).

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